L’arte? Una felice dannazione

Le opere di Ivana Burello sono in ogni continente. Del resto per lei l’arte è qualcosa di immanente, in sé e in ogni dove, e portarla per il mondo è un farla riconoscere più che conoscere. A conferma di ciò, le prossime vernici: il 26 aprile ad Abu Dhabi a Palazzo Ferrari (magistrale opera di Renzo Piano), a Matera (quest’anno capitale europea della cultura) il 23 giugno e a Miami a fine anno.

Avvicinando l’artista, abbiamo capito che dipingere non è un modo di fare, ma di essere. L’opera d’arte non nasce per hobby, nel relax dopo l’ufficio. Essa è un’urgenza che esige una vita senza compromessi, nella totale abnegazione del suo tramite; attraversa l’anima, le carni, gli occhi e i sensi.
L’arte è un paradosso: promette la libertà senza dare scampo.
«Vivo nella mia sottrazione. – ci spiega la Burello – Sarò compiuta quando di me non resterà traccia; sarà tutto sulle tele: una visione, l’indizio dell’immenso. Del tutto possibile».
Ivana Burello è un’artista. Apolide nella geografia e nel tempo. La possiamo giudicare folle, umorale, vagabonda. Ma il nostro errore è guardarla dal recinto ben protetto delle nostre spicciole e ottuse sicurezze. Picasso diceva che il principale nemico dell’arte è il buon senso.
Alla Burello non piace parlare di sé, lo trova insensato.
«Ascoltate i miei quadri – dice – e dialogate con i colori. Anch’essi abitano lo spazio. Il racconto è infinito; entrate in confidenza».
La vediamo abbracciare un’opera, prima di consegnarla a un cliente. Siamo perplessi.
«Lo faccio sempre – spiega – prima di lasciarle al mondo».
Già, il mondo. Lei è sempre in transito. Inafferrabile. Non le manca una casa?
«Gli affetti sono casa. Per il resto non posso fermarmi. Il diario di viaggio,di vita è incalzante, e lo scrivo con segni e colori. Serve spazio, sempre più grande fuori, sempre più piccolo dentro».
L’aver rinunciato alla famiglia, alle sicurezze, a un quotidiano… normale, non è un prezzo alto da pagare al talento?
«Lo pagherei facendo altrimenti. Sono nata artista, non lo sono diventata. Una felice dannazione! Accetto serena le conseguenze che derivano dalle mie scelte. Quello che non accetto, invece, sono i compromessi. In arte e nella vita».
L’abbiamo osservata dipingere. Sembra così… dolorosamente tesa.
«Prima di ogni cosa è l’emozione. Poi, quando il vulcano si placa, è concesso un momento di pace: è il tempo della conoscenza. Ma poi riprende il lungo tirocinio per imparare a vedere».
Lei è davvero poliedrica. Spazia egregiamente dalla pittura gestuale dell’action painting al paesaggio, fino alla ritrattistica. E’ insolito…
«Sono infedele ma generosa. Coerente nella mia duplice natura. Indipendente, libera, asessuata, lascio che la vita mi travolga come un fiume, e a volte riesco a fermarlo: sulle tele, sui muri… Nell’astrazione il racconto esce dai cardini sfidando tempo e spazio; il segno irrompe senza freni e trasborda. Tutto questo è amore. La ritrattistica? Qualcuno critica questa scelta, che definisce commerciale. E allora? Quando vivi per l’arte, essa ti fa vivere di arte».
Lei ha conosciuto grandi pittori. Di altri ha studiato vita e opere. Cosa le hanno insegnato?
«In passato ho provato profondo dolore e rabbia. Sono stata ferita, abusata, dileggiata. Mi hanno fatto dubitare di me stessa. Per un lungo e penosoperiodo, ho vissuto cercando approvazione, ma ero sempre più fragile e senza vita. I grandi artisti mi hanno insegnato che l’io è niente; chi ne è schiavo è insicuro, spaventato, e punta il dito contro ciò che non sa essere: libero. Mi sono spogliata da ogni ruolo convenzionale, quello di moglie, madre, figlia, riappropriandomi dell’anima. Nella sua universale nudità».
Ammiriamo un’opera prendere forma sulla tela. Si intitola Bosco Turchese…
«Sto sperimentando nuovi supporti e tecniche con il paesaggio. Nei viaggi osservo con tutti i sensi. Cerco il contatto perduto con la terra. Poi mi chiudo per giorni interi nello studio e dipingo un universo dove tutto è perdonato, dove crolla ogni legge ottusa, dove non esiste né bene né male, né bello né brutto. Sulla tela ci sono foglie e rami veri, raccolti nei prati di Faedis, dove spesso dipingo all’aperto, cosa che amo fare. Insomma, in mezzo alla natura, “dopo la pienezza, c’è la restituzione”».
Ha paura della morte?
«Ho paura di smettere di dipingere. Se esiste un’altra vita, dipingerò anche là. E sarò migliore».

Usciti dal laboratorio di Ivana Burello, si fa spazio un’idea. Non cerchiamo di comprendere l’artista o il suo lavoro, l’arte non è piacevole se vogliamo capirla. Scordiamo le certezze acquisite, perché è insensato incasellare, razionalizzare, etichettare con un codice di riconoscimento. L’autoreferenzialità spoglia le cose del mondo della loro identità, impedendoci di crescere. Un quadro è un’occasione che si presenta, e non deve essere sprecata; è come lo specchio di Alice. Non cerchiamo noi stessi in quello specchio, bensì il riflesso di tutto il resto. Se poi, come Alice lo attraversiamo, aperti nell’aperto, il nostro ego si farà da parte lasciando il posto a ciò che ci circonda, ed esso diverrà meraviglia. Diverrà mirabile. Questo Paese è la periferia del divino.
E’ amore. L’amore che non si può coniugare come un verbo, poiché non è un nostro fare.

I quadri di Ivana Burello sono un portale creato tra ciò che lei sente e ciò che è possibile. E lo varca tutte le volte, offrendoci la mano per seguirla. Se siamo coraggiosi, in quel mondo vedremo che, parafrasando Klee, una linea non è un segmento, ma un punto che è andato a fare una passeggiata.